Luigi Capitano
Università di Palermo
SPAZIO RISERVATO AGLI STUDENTI DEL LICEO "PIRANDELLO" DI BIVONA
LABORATORIO DI FILOSOFIA ANTICA (classe terza)
Nota sul nomos basilèus.
L’ambiguo detto di Pindaro: "il nomos è il re di tutto" veniva inteso da Erodoto in un senso relativistico come il «costume» che varia da popolo a popolo, interferendo probabilmente con la stessa concezione relativistica di Protagora. Ma Platone non avrebbe potuto accontentarsi della legge non scritta e convenzionale del nomos basilèus. Il suo ideale aristocratico rimaneva in ogni caso più vicino a Pindaro che non ad Erodoto. La legge sovrana rimane nel frattempo preda dei sofisti, interpretata spesso come la legge naturale del più forte, testimoniano anche dagli storici dell’epoca. Si pensi al discorso dei Meli in Tucidide, dove la democrazia ateniese viene imposta agli abitanti dell’isoletta dell’Egeo abitata appunto dai Meli. Ma si pensi soprattutto al dialogo fra Alcibiade e Pericle in Senofonte (Memorabili, I, 2, 40-47), dove il giovane Alcibiade costringe il politico ateniese ad ammettere che qualunque cosa venga prescritta dalla legge senza persuasione, foss’anche da parte di un regime democratico, sarebbe violenza. Nel Gorgia di Platone, la legge del più forte è sostenuta da Callicle, così come era stato sostenuto da Trasimaco nella Repubblica
così come da Crizia in altri dialoghi. Nel Protagora, il mito prometeico di Protagora insegnava che «rispetto» e «giustizia» sono bensì dei doni divini, ma ormai anche delle virtù insegnabili, insieme all’arte della convivenza.
IL FILOSOFARE, PRIMA DELLA FILOSOFIA
In Erodoto come in Tucidide il filosofare veniva assimilato all’amore del viaggio e del bello, al piacere disinteressato del vedere e del sapere, qualcosa di simile, se vogliamo, alla curiosità intellettuale dell’Ulisse dantesco. Così il re della Lidia Creso a Solone: “Ho sentito parlare dei viaggi che filosofando hai intrapreso per vedere molti paesi” (Erodoto, I, 30); e Pericle agli Ateniesi: “Noi amiamo il bello con semplicità (eutelèia) e filosofiamo senza mollezza (malachìa)” (Tucidide, II, 40). Proviamo a chiarirne il significato: amiamo il bello con sobrietà, ma filosofiamo con arditezza; amiamo la bellezza senza esagerare, ma filosofiamo con audacia, cioè amiamo il sapere con un ardore (tolma) che non riserviamo neppure all’apprezzamento delle cose belle; non ci concediamo tanto il lusso della bellezza, mentre il nostro amore del sapere non teme l’eccesso; non apprezziamo tanto il bello, quanto il sapere; non ci abbandoniamo all’ebbrezza dell’arte, bensì a quella della ragione. Da parte dei due storici, il filosofare è insomma assimilato alla curiosità teorica e intraprendente dell’histor, dell'indagatore.
La distinzione fra sapienti e filosofi che già Platone e Aristotele tenevano ben presente non rimane ignota ai dossografi posteriori.
Scrive, ad esempio, Cicerone:
"La filosofia, vediamo bene che è una cosa antichissima, ma il suo nome ammettiamo essere recente. Infatti, quella che certo non si può negare essere antica nella realtà, oltre che nel nome, non è forse la sapienza (sapientia)?" (Tusculane, V, 3, 7).
Anche Diogene Laerzio conferma che il più antico nome della filosofia era “sapienza”: “Per primo Pitagora usò il termine ‘filosofia’ e per primo si chiamò filosofo (...), come attesta Eraclide Pontico. Più anticamente si chiamava piuttosto sapienza, e sapiente chi la professasse, ed eccellesse nell’estrema cura dell’anima” (Vite dei filosofi, I, 12).
La leggenda secondo cui Pitagora avrebbe per primo rivendicato a sé il titolo di “filosofo”, inaugurando contemporaneamente l’uso della parola “filosofia” si spiegherebbe col tentativo operato dal più pitagorico fra gli allievi di Platone (Eraclide Pontico) di fare risalire l’ideale platonico della filosofia (e dell’uomo teoretico) a Pitagora. Secondo Eraclito, Pitagora, dopo aver praticato l’indagine scientifica (historìe), e dopo aver raccolti molti risultati da libri altrui, “ne trasse una sapienza (sophìe) tutta sua, in verità un nozionismo scientifico (polymathìe) e una tecnica artificiosa” (Diogene Laerzio, VIII, 6).
I SETTE SAVI E I "SAPIENTI DELLA NATURA"
Introduzione. I Sette Savi non sono né sapienti (della natura) né filosofi, ma saggi e legislatori, uomini politici ed esperti nelle faccende etiche, a partire dal motto aureo: "nulla di troppo", che esprime l'ideale apollineo della misura e della moderazione dei mortali (gli uomini) di fronte agli Immortali (gli dèi).
I Sette Savi sono a loro modo, sapienti della città, avendo introdotto (come Solone) l'ideale dell'uguaglianza e della misura, e quindi il concetto stesso di giustizia.
I Sette Savi (saggi ed esperti nelle questioni etico-politiche) non sono da confondere con i primi sapienti studiosi della natura (da Talete ad Anassagora), che sono invece i primi veri pensatori, in quanto tentano di decifrare il cosmo in termini razionali, abbandonando la spiegazione mitica dei fenomeni.
Talete fa eccezione perché viene annoverato sia come uno dei Sette Savi (in quanto saggio), sia come il primo dei sapienti-pensatori, in quanto studioso della natura.
I primi filosofi dunque non si presentano con il nome di "filosofi" (che ancora non esiste), bensì con quello di "sapienti" (sophòi) e con tale titolo spesso Platone li ricorda, seguito da Aristotele che precisa: "sapienti della natura", studiosi della natura, fisici in senso greco (naturalisti). Si tratta di quella schiera di pensatori che la tradizione storiografica dell'Otto-Novecento classifica come i "Presocratici", poiché sono venuti prima di Socrate (che rimane, a rigor di termini, il primo filosofo in senso vero e proprio).
Nel dialogo perduto "Sulla filosofia", Aristotele ci ha offerto una preziosa analisi filologico-genealogica della sapienza greca. Dopo aver ricordato il mitico diluvio che avrebbe portato i superstiti a salvarsi sulle montagne, viene descritto lo sviluppo della sapienza greca nei suoi progressivi slittamenti di significato:
"Orbene, questi superstiti, poiché non avevano di che nutrirsi inventarono sotto lo stimolo della necessità ciò che serviva per le loro esigenze: macinare il grano con la mola o seminare o qualche altra operazione del genere, e chiamarono “sapienza” una tale invenzione, che trovò ciò che era utile per le necessità della vita, e “sapiente” chi aveva fatto l’invenzione. Successivamente escogitarono le arti, come dice il poeta “secondo i suggerimenti di Atena” e queste costituite non solo in vista delle necessità della vita, ma progredienti fino al bello e alla civiltà; e ciò chiamarono ancora una volta “sapienza” e chi la inventò “sapiente” come [si vede ne]i versi “un sapiente artefice ha costruito” [cfr. Iliade, XXIII, 712] e “buon conoscitore per i suggerimenti di Atena” [Iliade, XV, 412]. Infatti per il valore straordinario delle scoperte attribuivano agli dèi le invenzioni di costoro. Successivamente, ancora, fissarono la loro attenzione sull’attività politica e inventarono le leggi e tutti quegli ordinamenti che organizzano le città, e chiamarono ancora “sapienza” tale invenzione. Tali furono i Sette Sapienti, scopritori delle virtù politiche. Successivamente, procedendo con metodo si sforzarono di pervenire fino all’essenza dei corpi e alla natura creatrice di questi e chiamarono ciò con il termine specifico “teoria della natura” [physikè theoria] e tali chiamiamo sapienti della natura [sophòi perì ten physin]; in un quinto tempo, da ultimo, giunsero fino all’essenza delle realtà divine, sopramondane e perfettamente immutabili, e la conoscenza suprema di tali realtà chiamarono sapienza". (Fr. 8 Ross = 1 Untersteiner)
Questo frammento è di grande importanza, poiché ci informa che ancor prima della comparsa dei Presocratici veniva detta “sapienza” 1) l’invenzione delle tecniche che nell’età postdiluviana affrancò l’uomo dal bisogno e dalle necessità della vita; ad essa fece seguito 2) la scoperta delle arti belle, della sapienza artistica che fece progredire la civiltà umana come per ispirazione divina 3) poi fu la volta della sapienza etico-politica di cui furono protagonisti i Sette Sapienti, “scopritori di alcune virtù politiche” ; 4) apparvero quindi i primi “teorici della natura” (anch’essi, si noti bene, detti “sapienti”). Ma come si vede i nuovi “sapienti della natura” si distaccano dai sette sapienti della polis. Solo al termine di questa parabola troviamo 5) i filosofi quale espressione della suprema e definitiva forma della sapienza, coincidente con la conoscenza metafisica delle cose perfette e immutabili. Aristotele ci teneva a distinguere la più evoluta sapienza metafisica propria dei filosofi, la “sapienza prima” (Metafisica, 1005b) da quella naturalistica dei Presocratici, e analogamente, la sapienza naturalistica (o cosmologica) da quella più ristretta dei Sette Sapienti, e, andando sempre a ritroso, la sapienza artistica da quella semplicemente tecnica. Peraltro emerge pure come, proprio a partire dai Presocratici, si sblocchi la sapienza come teoria che si pone al là della produzione dell’utile o del dilettevole, e che rimane perciò distinta dalla sapienza tecnico-pratica.
Il dialogo in cui Aristotele svolge questa analisi sui cinque sensi della sapienza rimane tematicamente connesso al I libro della Metafisica , dove infatti è trattato il vero significato della parola “sapienza”, qui elevata al grado eccellente di “filosofia”. Non deve quindi stupire se un pensatore come Talete, che una tradizione precedente annoverava fra i Sette Sapienti, possa ora da Aristotele essere posto come l’“iniziatore di una tale filosofia” (Metafisica, 983 b 20-21). Sempre nel libro che apre l’opera maggiore di Aristotele, troviamo un rimando all’Etica Nicomachea (VI, 6-7) dove pure si tratta delle “virtù dianoetiche” e della distinzione fra la saggezza, la scienza e l’arte. Anche in questo caso lo Stagirita tiene a non confondere la sapienza tecnica (la virtù artistica) o anche la saggezza (riguardante le cose umane, le cose contingenti in genere) con la sapienza vera e propria che concerne piuttosto le conoscenze universali e necessarie e che risulta dall’unione dell’intelletto che intuisce i principi (nous) con il sapere dimostrativo (episteme). La “sapienza” è generalmente attribuita a chi esercita l’arte o la scienza più perfetta. Nel primo senso, Aristotele porta gli esempi degli scultori Fidia e Policleto. Ma poiché la vera sapienza non riguarda niente di determinato (Omero, Margite, fr. 2 Allen), sapienza per eccellenza sarà giustamente detta la perfezione del sapere, “la più perfetta delle scienze” (ivi, VI, 7, 17), la scienza eccellente delle cose eccellenti (ivi, VI, 7, 20; Metafisica, 1026a 21-22). Come si vede, lo Stagirita ribadisce nella Metafisica come nell’Etica nicomachea quanto affermato nel già discusso frammento ottavo: la sapienza si distacca dalla saggezza dal momento che riguarda la conoscenza più eccellente e perfetta, universale e necessaria.
IL DETTO DI ANASSIMANDRO
"Le cose da cui traggono origine le cose che esistono, sono le stesse da cui si genera la loro rovina, secondo necessità: esse, infatti, rendono l'un l'altra giustizia ed espiazione per la loro ingiustizia, secondo l'ordine del tempo" (traduzione nostra).
Il primo detto della sapienza greca si presenta a noi con tutta la potenza abbagliante e vertiginosa di un enigma. L’infinito del principio è un vortice di opposte potenze (dynàmeis) in eterno movimento. Di qui nasce il mondo con il suo teatro di elementi in opposizione che rendono tragicamente giustizia dell’ingiustizia originaria (il distacco dal principio) distruggendosi a vicenda.
Quali sono “quelle cose” dalle quali e verso le quali si svolge il destino delle cose, e che apre il varco eleusino della visione del principio e della fine di tutte le cose? Potrebbe trattarsi delle potenze (dynàmeis) dei contrari (enantìoi), delle potenze dell’infinito, delle qualità opposte presenti nella concezione ionica della natura (nonché nel successivo linguaggio di Parmenide: DK 28 B 9; virtutes: B 18), le quali si avvicendano secondo il ritmo delle stagioni, ma che rappresentano al tempo stesso un ciclo metafisico in cui gli opposti meteorologici (caldo e freddo; umido e secco) si sopraffanno a vicenda (allèlois) nell’infinita giostra del tempo. È come se gli enti e i viventi del mondo fossero afflitti, per il fatto di esistere – o meglio, per il fatto stesso di entrare nel teatro del divenire – da una colpa originaria, dalla quale possono sollevarsi solo tornando alla pretesa armonia dell’origine (dell’essere in potenza, o del nulla in atto, per dirla con Aristotele). Fin qui il mito metafisico di Anassimandro non sembra discostarsi da quello orfico (o anche da quello biblico) del peccato originale che rimane espiabile solo attraverso un faticoso cammino di ritorno verso il principio divino. Si tratta, insomma, della prima versione metafisica del mito della caduta. Ma a differenza dal mito biblico, con Anassimandro la giustizia (la Dike cosmica) si ricompone e si restaura solo attraverso la rovina stessa degli individui (enti-elementi isolati, contro gli opposti enti-elementi che rappresentano quasi delle qualità egoisticamente opposte). Di qui il tratto non solo pessimistico (peraltro condiviso prima dall’orfismo e poi dalla filosofia cristiana), ma anche tragico di tale visione metafisica. In questo che rimane il primo esempio di prosa protofilosofica (senza considerare la cosmologia mitologizzante e allegorizzante dei Sette recessi di Ferecide), ci troviamo quindi di fronte alla più alta trascrizione metafisica del mito della lacerazione del divino nella pluralità. Le interpretazioni neoplatoniche del mito di Dioniso e dei Titani, non fanno che confermare questa ipotesi.
PER APPROFONDIRE ANASSIMANDRO
Il detto di Anassimandro sembra essere un enigma a sua volta infinito. Esso non evoca semplicemente lo strappo originario del divenire dall’essere, quanto la nascita del divenire dalle stesse potenze dinamiche del nulla (o del ‘superessereì). Quelle “cose da cui” e “verso cui” avviene la nascita e la distruzione di tutte le cose è infatti il luogo in cui il divenire sorge dal nulla infinito, il luogo in cui il divenire plurale delle cose sorge dalla singolare potenza dell’infinito. Che il non-essere possa essere infinito sarà esplicitamente riconosciuto per la prima volta nell’ambito dell’eleatismo (Senofane, 21 B 28), mentre che qualcosa possa nascere dal nulla (essere in potenza) è quanto ammetterà lo stesso Aristotele. Ma tutto questo riposa già nel “non detto” del detto di Anassimandro. Quest’ultimo non indica quindi semplicemente il doppio passaggio dal nulla all’essere (genesis) e dall’essere al nulla (phtoràs) nella cifra originaria del divenire, ma evoca in pari tempo il misterioso irrompere dello stesso divenire sullo sfondo dell’essere (o anche del nulla). È come se di trattasse insomma di sorprendere il divenire archetipico-trascendentale nel suo emergere alle spalle di ogni divenire possibile. Eraclito, che appare come un alunno di Anassimandro in molti dei suoi frammenti, staccherà questo cordone ombelicale dall’infinito del maestro milesio, per rendere infinito unicamente il divenire. Il problema della giustizia, nella sua tragicità, è risolto non già attraverso il vicendevole avvicendamento (allèlois) degli opposti, ma attraverso una crasi concettuale che ne rende ancora più fluida la dialettica (coincidentia oppositorum). La prevaricazione eristica degli opposti è ora vista come figlia di Polemos.
In quest’ottica il me phynai, emblemetico della sapienza silenica dei Greci, torna inaspettatamente a gettare luce sul detto di Anassimandro: si tratta infatti del non-divenire che si mantiene nel non essere, nelle potenze infinite dell’origine. Nascere e divenire (phynai, ghenesthai) significa infatti sacrificio (giustizia / ingiustizia) degli esseri, quindi tragedia. Il primo che, senza volere, apre uno squarcio verso questa possibilità fu il giovane Nietzsche: “Il divenire comincia con la loro [delle qualità originarie] separazione dall’essere primordiale dell’‘indeterminato’” . La colpa metafisica è dunque rappresentata dal divenire, cioè dal venire all’esistenza, perché tutto ciò che esiste si contrappone fatalmente alle altre esistenze e riesce a pagare il debito dell’ingiustizia cosmica solo distruggendo gli opposti. Solo nell’armonia dell’origine questi ultimi torneranno a coesistere pacificamente come delle potenze che non si elidono e non si prevaricano più a vicenda, perché appunto qui – nell’infinito indeterminato – esistono solo in potenza, che è come dire che non esistono in atto. Ecco che il me phynai inteso come me ghenesthai, non divenire, è meglio dell’essere, se il non essere è l’infinito stesso, il recesso dell’arché divina da cui tutto viene e a cui tutto fatalmente ritorna secondo il decreto del Tempo e della Necessità (tanto per evocare queste antiche divinità orfiche che aleggiano nel detto di Anassimandro come poi in alcuni frammenti eraclitei). Sembra risuonare nel detto di Anassimandro tutta la sapienza di Orfeo, del Sileno e di Solone: l’eterno ritorno all’unità infranta dell’origine, il rimpianto del non-essere, il senso metafisico di una giustizia che sempre viene a riparare il torto subito.
Solo una volta il grande milesio (Anassimandro) viene esplicitamente nominato in tutta la Metafisica (1069 b), dove viene significativamente posto accanto alla triade Anassagora, Empedocle, Democrito. Come e prima dei fisici del V secolo egli avrebbe difatti intuito che tutto deriva dal “non essere in atto”, dalla mescolanza degli enti in potenza, come dire dalla materia. Aristotele qualifica qui l’indeterminato anassimandreo come migma , mescolanza di tutte le cose in potenza o di tutte le potenze raccolte nel principio (panta dynàmei) . Nella Fisica Aristotele associa Anassimandro ad Anassagora e ad Empedocle, quando scrive: “Altri sostengono che dall’uno che li contiene, si separano i contrari, come afferma Anassimandro e coloro che dicono che l’essere è nello stesso tempo uno e molteplice” (Fisica, 187 a 20). Più avanti, Aristotele allude ancora ad Anassimandro: “non è neppure possibile che ponendolo il corpo infinito sia uno o semplice, né, come dicono alcuni, che esso sia fuori degli elementi e che sia ciò da cui tutte le cose si generano, non in senso assoluto. Vi sono infatti taluni che ritengono che l’infinito sia tale, e non l’aria o l’acqua, affinché gli altri elementi non siano distrutti da quell’elemento, fra questi, che è infinito. Gli elementi, in effetti, si contrappongono reciprocamente: ad esempio, l’aria è fredda, l’acqua è umida, il fuoco è caldo. Se una di queste cose fosse infinita, distruggerebbe perciò le altre. E affermano che l’infinito è diverso da ciò che compone queste cose” (Fisica, 204 b 20; cfr. 207 b- 208 a). Se Avesse avuto ragione Talete, l’acqua avrebbe dovuto dirsi infinita, sopravanzando gli altri elementi, ecco perché per Anassimandro tanto vale rivolgersi verso il pensiero abissale dell’infinito.
Anche senza volere, Cusano e Schelling torneranno a sporgersi sull’abisso dell’infinito anassimandreo: rispettivamente, nella coincidentia oppositorum che abita la mente di Dio e nell’indifferenza delle potenze dell’Assoluto prospettata nella fase della filosofia dell’identità. Il mondo di Cusano rappresenta una sorta di caduta ontologica rispetto al mondo delle qualità infinite e opposte che abitano nella mente divina. A ben vedere, con Anassimandro, ci troviamo di fronte alla primissima formulazione dell’hen kai pan: il tutto viene dall’uno e all’uno ritorna secondo un ritmo eterno e fatale. L’infinito del principio è un vortice di potenze in perpetuo movimento. Di qui nasce la scena del mondo con il suo teatro tragico di opposti (enantìoi ) che rendono giustizia dell’ingiustizia originaria (il distacco dal principio) distruggendosi a vicenda, per ricongiungersi con l’infinito.
LA SAPIENZA DI PITAGORA
Pitagora avrebbe introdotto la “filosofia” in Grecia e sarebbe quindi il primo “filosofo” (secondo una testimonianza risalente ad Eraclide Pontico). In verità, l’uomo teoretico non nasce come filosofo, bensì come sapiente della natura. E ciò vale per Pitagora non meno che per Talete. Secondo Eraclito (in Diogene Laerzio, VIII 6), la “ricerca” praticata da Pitagora si esprimeva in una “sapienza tutta sua propria” (eautou sophìen).
Forse allievo di Ferecide e influenzato dalla scuola di Mileto, Pitagora scende nell’agone sapienziale polemizzando ex silentio contro l’infinito positivo di Anassimandro. All’origine di tutto non c’è un solo principio nel quale si ripeterebbe il dramma cosmico, bensì la composizione di due principi opposti che si armonizzano nell’armonia del cosmo.
Per i Pitagorici i principi delle cose sono dunque i numeri: dispari e pari, limitanti e illimitati. Ma come si può arrivare a sostenere una simile tesi? Pitagora partiva dall’armonia che poteva osservare nella natura e dalle analogie riscontrabili fra la musica e la matematica. Tutto dunque per lui è logos, ragione, proporzione armonica. I numeri e i loro rapporti rappresentano la struttura e il codice del mondo, la legge dell’armonia universale, e quindi, in un certo senso, sono le cifre con cui tutte le cose sono scritte. Non c’è nulla in natura che non rispecchi questo ordine, che riesce ad assorbire perfino l’apparente caos dell’incommensurabile. Anzi, la proporzione aurea racchiude proprio questo segreto codice della natura. Lungi dall’essere stato lo scandalo della scuola pitagorica (anche se non si può escludere un certo sgomento iniziale), quella degli incommensurabili (degli irrazionali) dev’essere considerata la grande scoperta dei Pitagorici. Ma i veri principi di tutte le cose si trovano al di sopra dei numeri.
Secondo una tradizione indiscussa, Pitagora avrebbe individuato, al di sopra del numero, i due principi di tutte le cose: il limite (il determinato) e l’illimite (l’indeterminato). Lo troviamo attestato anche da Plutarco: “Il principio indeterminato è l’origine del pari; l’altro principio, il migliore, è l’origine del dispari” (Il tramonto degli oracoli, 429 b); “il Bene è l’Uno, il determinato”, “il Male è la Diade, l’indeterminato” (Iside e Osiride, 370 e). La “tavola degli opposti” di Aristotele (I libro della Metafisica) come quella riportata da Plutarco (loc. cit.) mettono capo a questi due principi (limite e illimite; determinato e indeterminato), che rimarranno alla base della stessa metafisica di Platone, oltre che della cosmologia di Filolao (fr. 1). Pitagora (che secondo la tradizione sarebbe venuto a contatto con la sapienza dei Milesi, oltre che con il dualismo luce / tenebre dei Magi) avrebbe dunque superato la visione di un principio unico, negando la positività dell’infinito che era stata affermata da Anassimandro. Non basta dire che l’infinito è il principio e l’anima di tutte le cose. Il principio che anima e armonizza le cose è il numero (harithmòs e harmonìa avrebbero la stessa radice); e il numero discende a sua volta dal limite (dispari) e dall’illimite (pari).
Alcuni Pitagorici avevano forse riformulato l’enigma anassimandreo delle cose-potenze dell’origine. Nel primo frammento di Filolao, leggiamo che “la natura del cosmo fu armonizzata da cose illimitate e cose limitanti; sia l’intero cosmo sia tutte le cose che sono in esso” . Queste potenze sono con ogni probabilità i numeri pari e dispari, o anche gli irrazionali e i razionali.
Nella sua ambiguità, l’uno può essere alternativamente inteso ora come indistinzione originaria (Orfici, Anassimandro), ora come principio di limitazione, di determinazione, di individuazione (Pitagorici). L’opposizione uno-molti giocava ad esempio un ruolo nel mito orfico di Dioniso, sbranato dai Titani (poi inceneriti da Zeus). La stirpe umana avrebbe così ereditato una natura doppia, insieme ad una colpa originaria della quale avrebbe dovuto purificarsi. Pare che anche Onomacrito ne abbia trattato (Pausania, VIII, 37, 5), e lo stesso detto di Anassimandro è stato talvolta interpretato come una trascrizione metafisica di tale mito . Che in Pitagora si presenti una sorta di “revival orfico” è la tesi di Cornford. Orfeo rappresenterebbe un Dioniso “apollinizzato”, in qualche modo olimpico .
Non meno istruttiva appare l’interpretazione neoplatonica che parla di una rottura dell’Uno originario che avrebbe dato luogo al mondo molteplice. Anche per i Pitagorici i molti provengono dall’uno, o perlomeno si oppongono dialetticamente ad esso. Secondo una certa cosmogonia pitagorica, sarebbe stato il respiro del cielo a consentire al vuoto infinito dell’aria di distinguere e vivificare i numeri e le cose. L’illimitato soffio pneumatico avrebbe così dato vita a tutte le cose che sono (Aristotele, Fisica, 213 b).
Per Platone il dono divino di Pitagora – questo novello Prometeo – consiste proprio nell’avere fatto discendere dal cielo i due principi cosmici dell’uno (limite) e del molteplice (illimite). Sarebbe perciò compito del dialettico (il filosofo) quello di non lasciarsi sfuggire tutto ciò che sta in mezzo (Filebo, 16c-17a). In un certo senso, l’illimitato riempie lo spazio lasciato vuoto dall’atomismo aritmetico, dalle quantità discrete dei numeri interi. Nella visione di Pitagora – che pone così riparo alla tragedia dell’origine – l’armonia nasce proprio dall’“accordo” fra limite e illimite, bene e male, ecc., che è anche un modo per risolvere in prospettiva il contrasto fra razionale (lògos) e irrazionale (àlogos). Solo così si riesce a comprendere la soluzione apportata da Pitagora alla cosiddetta crisi dei fondamenti matematici seguita a quella scoperta dell’incommensurabilità che si sarebbe conclusa solo con Teodoro di Cirene, almeno secondo la ricostruzione di De Santillana . Ma stando ad alcune testimonianze (Aristotele, Proclo ), a scoprire gli “irrazionali” sarebbe stato proprio Pitagora. Aristotele osserva che “di nulla un geometra si meraviglierebbe di più che se la diagonale fosse commensurabile al lato” . A ciò si aggiunga l’emozione di letizia e di giubilo attribuiti da fra Luca Pacioli a Pitagora per la scoperta della divina proporzione . Quando Giamblico riporta la leggenda di Ippaso di Metaponto, dichiarato morto in effigie per aver rivelato la scoperta dell’incommensurabilità e del dodecaedro, non manca di sottolineare che tutte quelle scoperte erano state compiute già da “Lui”, come veniva chiamato il venerando Pitagora, per evitare di pronunciare il suo nome. Apprendiamo sempre da Giamblico per quale motivo le dottrine segrete non potevano essere divulgate: non tutti le meritavano, e forse non tutti le avrebbero comprese (come spiegherà Platone attraverso il mito della caverna). Uno degli akousmata pitagorici diceva che la cosa più vera è che “gli uomini sono malvagi”. Da tutto ciò si ricava che le dottrine promettevano la purificazione e la salvezza solo ai migliori, agli adepti, agli iniziati (si ricordi che a Samo come a Crotone la setta pitagorica aveva provocato delle sommosse antiaristocratiche). Se la divulgazione avvenne, ad opera soprattutto di Filolao e quindi di Platone, fu per una svolta che rimane tutta da interpretare e che portò di fatto ad una sostanziale democratizzazione del messaggio favorito anche dal mezzo rivoluzionario della scrittura. La tradizione esoterica era invece basata sull’esercizio della memoria e sulla trasmissione iniziatica orale. Troppo banale sarebbe credere alla disgrazia economica che avrebbe colpito qualche pitagorico come Filolao , tanto da indurlo a un simile passo falso. Platone – che nella sua opera mantiene un devoto riserbo su Pitagora – nel Gorgia (507e-508a) allude all’armonia e all’ordine che i Pitagorici avrebbero sostituito al disordine (akosmìa). L’altro accenno pitagorico contenuto nel Filebo (28 d) accenna pure ad un “accordo” fra i due principi primi che Plutarco associerà ad Apollo e Dioniso . Ma già nella Repubblica Platone si schierava apertamente dalla parte dei Pitagorici e della dottrina dell’armonia cosmica. Pitagora rimane la segreta chiave di lettura del maggiore filosofo dell’antichità. Lungi dall’essere fonte di disordine, l’incommensurabilità rimane alla base dell’armonia, nella natura come nell’arte. La visione tragica e pessimistica del mondo (derivante in parte dall’Orfismo, in parte da Anassimandro) viene così superata brillantemente da Pitagora, che pure promette alla doppia cerchia dei suoi iniziati (‘acusmatici’ e soprattutto ‘matematici’) una salvezza e una purificazione mediante le scienze e i riti iniziatici del suo tiaso. Non solo Euclide e Platone, ma tutta l’arte classica fino al Rinascimento, anzi fino al sorgere della scienza moderna (si pensi a Keplero), si avvantaggerà della scoperta matematica di Pitagora, che rigorizzava a livello scientifico formule e procedure già esistenti nella matematica orientale. Non a caso il canone di Policleto, e più in generale tutta l’arte greca classica (come già quella egizia della costruzione dei templi e delle piramidi) si basava sulla conoscenza della proporzione aurea, implicita anche nel pentalfa e pentagramma dei pitagorici. Il segreto dell’“accordo” (homònoia) sta dunque nella concordanza dei discordi. Tutti i rapporti armonici (di ottava, quinta e quarta: 1/2, 2/3, 3/4) si fondano su tale principio. Il logos stesso è proporzione, rapporto . Ma le proporzioni degli enti di natura e dei prodotti dell’arte si basano anche sulla “sezione aurea”, ovvero sui numeri irrazionali. Si pensi alle proporzioni di una foglia, di una stella marina, di una conchiglia, dello stesso corpo umano (l’uomo vitruviano di Leonardo!). La scienza moderna non potrebbe far altro che confermare l’intuizione pitagorica: l’armonia della natura nasce dall’incontro del caos e dell’ordine, dell’irrazionale e del razionale, dell’illimitato e della misura, come mostra il libro di Cramer Caos e ordine: "sulla frontiera fra ordine e caos si riscontra un'autentica armonia". Come Nietzsche osservava sulla scia di Dürer, l’ombra è necessaria alla bellezza di un volto quanto la luce: “Perché ci sia bellezza sul volto, chiarezza nel discorso, bontà e saldezza nel carattere, l’ombra è tanto necessaria quanto la luce” .
La tavola pitagorica degli opposti che troviamo esposta in Aristotele va letta in parallelo con quella riportata da Plutarco, in cui si rivela l’opposizione fra Apollo e Dioniso (Iside e Osiride, 381 F). In entrambe le liste rimane implicita l’opposizione lògos-àlogos. Quest’ultima potrebbe servire ad illuminare la vecchia questione relativa alla scoperta dell’incommensurabilità, dal momento che tale scoperta coincide con quella dei numeri irrazionali e che nella sezione aurea (un numero irrazionale) si ricompone la formula dell’armonia.
Concludiamo con una nota circa l’opposizione maschio-femmina di cui parla Aristotele (ma non Plutarco) a proposito di “certi Pitagorici” nella cosiddetta “tavola egli opposti”. Secondo una leggenda, Pitagora avrebbe appreso dal caldeo Zarata (Zarathustra) la sua visione dualistica basata sulla opposizione luce-tenebre (14B 11). La luce e tenebra sarebbero rispettivamente padre e madre (come dire: principio attivo e principio passivo) di tutte le cose. Si potrebbe, inoltre, consultare il grande repertorio mitologico offerto da Bachofen nel Matriarcato per comprendere l’importanza attribuita da Pitagora all’universo femminile, mondo legato all’antica religione matriarcale che fu già preellenica. (Pitagora stesso sarebbe stato ‘iniziato’ da una sacerdotessa pitica: Temistoclea). Bachofen si sforza di mostrare come il negativo (il femminile, il notturno e il sinistro) riesca a risolversi in positivo, nella più elevata dimensione misterica e ultramondana (pp. 861-864). Si può indovinare anche qui tutto il travaglio della sublimazione dell’elemento tellurico-femminile in quello celeste-maschile a partire dalla nuova civiltà patriarcale ellenica. È forse anche questo (come l’opposizione apollineo-dionisiaco che ancora traspare pressoché in tutti i primi pensatori) un sintomo del lento ma fatale metabolismo dello spirito della tragedia?
ERACLITO ANTIFILOSOFO?
Avendo scelto di esprimersi in forma enigmatica, l’aristocratico Eraclito riaccende ‘perfidamente’ quella gara della sapienza che nella Grecia arcaica era sorta intorno all’interpretazione del linguaggio divino . Nella sua insuperata superbia sapienziale, Eraclito poteva permettersi di fustigare tutti coloro che ai suoi tempi godevano della fama di sapienti, contendendo loro il titolo di vero sapiente. Ai suoi occhi, Pitagora aveva escogitato una “personale sapienza” a partire da “un’artificiosa accozzaglia” di idee altrui.
Ma il vero sapiente non ha bisogno di cercare il sapere al di fuori di sé stesso , di quell’unico logos di cui Eraclito pretendeva di essere insieme oracolo e interprete. Il solo frammento, fortemente sospettato d’inautenticità, in cui sembrerebbe comparire anzitempo la parola “filosofo”, recita così: “i filosofi devono essere testimoni [histores] di molte cose” dove “testimoni” sta per “indagatori” o “ricercatori”, o anche “giudici”. Si tratta di una sentenza ricavata da una parafrasi di Clemente Alessandrino sulla base di una testimonianza di Porfirio (De abstin. II 49).
Alla fin fine, non è decisivo sapere con certezza se tale detto, così spesso frainteso, sia da considerarsi autentico o meno. Wilamowitz, Reinhardt, Nestle, Burckert, Marcovich, protendono per l’ipotesi del frammento spurio. Contra militano però i nomi non meno importanti di Diels, Kranz, Kirk, Ramnoux, Gigon. Ma seppure avesse ragione quest’ultima schiera, allora i “filosofi” sarebbero in fondo da considerare come i disprezzabili rappresentanti di quel molteplice sapere che con un neologismo Eraclito ha chiamato polymathìe . Essi sarebbero pertanto degli histores, posta la sinonimia eraclitea fra historìe e polymathìe. Sta di fatto che il sapiente non ha bisogno di porsi in atteggiamento di ricerca o di indagine alla maniera del filosofo (non ancora apparsa all’orizzonte) o sull’esempio della figura, già datata, dello histor alla Ecateo. Per il sapiente non può esservi nulla da indagare. Ecco perché, prima del filosofo Socrate, il sapiente Eraclito può dire, in modo veramente inaudito: “ho interrogato me stesso”. Il sapiente non vuole sapere chi egli stesso sia (come Socrate si chiede in un momento d’ironico sconforto). Semmai, egli può trarre da sé oracoli riguardanti la sapienza universale, il logos comune a tutte le cose: “non ascoltando me, ma il logos sapienza è capire che tutte le cose sono Uno, e l’Uno è tutte le cose”. Il sapiente è quindi sia l’oracolo che l’interprete di quella sapienza che, a sua volta, non solo è ciò che è comune (xunòn), ma anche ciò che si illumina “con l’intuizione” (xun no), stando al gioco di parole eracliteo (fr. 114). Ma anche per Parmenide, suo apparente antipode, l’intuire e l’essere sono lo stesso. Così il sapiente rappresenta l’incarnazione stessa della sapienza , l’illuminante e l’illuminato, l’oracolo di se stesso.
La volontà di sapere rimane estranea al sapiente. Giacché sa, il sapiente non potrà ricercare il sapere se non in se stesso. Né egli deve affidarsi ad un metodo per raggiungere l’“Insperabile”, ché un simile fine sarebbe destinato a rimanere in ogni caso “precluso alla ricerca”. Il mistero non è qualcosa che si dischiuda, cedendo di fronte al semplice amore della sapienza. Tanto meno la ricchezza del sapere è condizione della sapienza. Si comprende allora il motivo della polemica condotta da Eraclito nei confronti dell’erudizione dei presunti sapienti, poeti e pensatori passati e presenti: “il molteplice sapere (polymathìe) non insegna l’intuizione; altrimenti l’avrebbe insegnata a Esiodo e a Pitagora, a Senofane e a Ecateo”. È l’inequivocabile supremazia del pensiero sulla cultura, dell’intuizione sul nozionismo che viene qui affermata nel tono più deciso e perentorio possibile da Eraclito.
Nei frammenti di Eraclito la parola sapienza (sophìe) è veramente preziosa, tanto più che essa compare solo due volte (a volere tacere una testimonianza dubbia, che paragona gli uomini a delle scimmie, se confrontati alla sapienza degli dèi): una volta nella polemica contro Pitagora (e la sua cattiva “sapienza” privata), e un’altra a proposito della virtù del pensare nell’immediatezza e “secondo l’origine”, ovvero come sinonimo dell’intuire, laddove è chiaro che anche quando il sapiente di Efeso parla di sapere (to sophòn), di intuito (noos), ragione (logos), intelligenza (gnome), pensiero (phrònesis), si riferisce a una rete di sinonimìe che mette sempre capo a un concetto di sapienza (sophìe) ancora non distinta dalla saggezza: “sapienza è (…) dire e fare cose vere”. Non a caso, l’elegante versione di Angelo Tonelli rende spesso e volentieri con la parola “sapienza” la costellazione dei quasi-sinonimi. Se il fuoco eracliteo è detto “sapiente” (phrònimos) ed è considerato divino (“anche qui ci sono dèi”), oltre che eterno (“sempre vivente”), allora vi sono pochi dubbi che questa energia creativa-distruttiva e questo principio metamorfico fisico/iperfisico debba essere considerato un simbolo del logos universale, o anche del polemos, della tensione (palìntonos) in cui gli opposti rivelano la loro identità, dello stesso divenire in cui si identificano l’essere e il nulla (“siamo e non siamo”). I termini mortale e vivente si equivalgono come il principio e la fine in ogni punto del cerchio, come essere e nulla in ogni punto del divenire. Un altro filosofo del divenire, Montaigne, dirà che si muore non già perché si è malati, ma perché si è vivi…
Dopo Pitagora, Apollo si riconferma il dio del logos, che per Eraclito è soprattutto il dio dell’armonia degli opposti (come nell’arco e nella lira), dell’ambiguità oracolare, dell’unità, del sole , del fuoco. Oltre che principio del tutto, il fuoco è il nome simbolico-esoterico che Eraclito dà al suo dio metafisico: “I sapienti, per tenere nascosto il loro pensiero alla folla, danno alla trasformazione del dio in fuoco il nome di Apollo a causa della sua unicità” (L’E di Delfi, 9).
Il fuoco rimane il simbolo dell’unità divina che si mescola con i diversi aromi e nomi degli dèi: l’unità che si esprime nella pluralità, l’identità dell’uno e del tutto. Analogamente, Dioniso rappresenta il dio dell’immediatezza che presiede alla metamorfosi e alla pluralità delle forme del mondo. Plutarco, ultimo sacerdote di Delfi, non avrebbe potuto essere più eloquente al riguardo: “talvolta brucia nel fuoco la sua natura, eguagliando tutte le sostanze in un magma unico; altre volte si moltiplica in ogni sorta di forme (…) e con il più illustre dei suoi appellativi è chiamato ‘mondo’ (…) I sapienti occultano questo processo [la trasformazione del fuoco negli altri elementi] sotto i simboli della lacerazione e dello smembramento. Essi lo chiamano con i nomi di ‘Dioniso’, ‘Zagreo’, ‘Nictelio’, ‘Isodaète’; e favoleggiano di morti e sparizioni e poi di rinascite e palingenesi, alludendo con questi favolosi enigmi alle trasformazioni di cui si è detto (ivi). Colli ha tradotto tutto questo discorso dicendo che “Fuoco è simbolo del dio, mondo è l’espressione” .
Il fuoco è l’energia metamorfica che crea e distrugge i mondi, nell’altalena dei cicli cosmici. Il principio infinito di Anassimandro, dopo Pitagora (che l’aveva relegato nel male), torna così a brillare di luce positiva nel fuoco di Eraclito, nel gioco eterno dell’Aion.
Eraclito è il primo sapiente che abbia interrogato se stesso in modo analogo a come si interpella un oracolo (il verbo è ugualmente dìzemai). Egli si è eletto così a maestro di se stesso e al tempo stesso ad oracolo del logos delfico, del linguaggio apollineo-dionisiaco. Gli indagatori, come i filosofi, scavano molta terra, ma trovano poco oro. Essi non sanno dunque interrogare (il verbo è ancora dìzemai) il logos. Colui che accumula scienze e dottrine appartiene invece ad un’altra specie di ricercatore: come il cercatore d’oro è destinato a non trovare nulla, rimanendogli preclusa la via della sapienza. La cultura non insegna dunque il pensiero: ecco l’insegnamento più alto di Eraclito. Il superbo Eraclito ingaggia una spietata gara della sapienza con Omero, Esiodo, Pitagora, Senofane ed Ecateo. Il primo si ingannava sulla “conoscenza delle apparenze”, gli altri confondevano la sapienza con la polymathìe o con l’historìe. Esiodo diceva (Opere, 792) che solo raramente (ogni vigesimo) nasce un vero sapiente (histor), e presentava se stesso come testimone ispirato dalle Muse che tutto sanno. Pitagora aveva coltivato la sua historìe come una sapienza privata, trattandosi in verità una dottrina raccattata dalla sapienza orientale. Come Ecateo, Senofane aveva viaggiato molto, convinto di trovare il meglio attraverso la ricerca (zètesis, qui sinonimo di historìe). Sempre sulla linea di Ecateo, Senofane aveva inteso la scienza come indagine o come risultato di una ricerca (historìe), anticipando così quello che sarà il metodo osservativo-induttivo della scienza. Esiodo e Pitagora rappresentavano invece i massimi esempi di un’erudizione (mitologica o matematica) incapace di riconoscere l’intimo nesso fra le cose. Ad Esiodo (che pretendeva di essere un sapiente divinamente ispirato) sfuggiva l’identità di giorno e notte, così come a Pitagora quella di giusto e ingiusto, di limite e illimite, ecc. Ma per il dio, come dice Eraclito, tutte le cose sono giuste e belle, quelle che gli uomini chiamano ora giuste ora ingiuste. Per dirla con Nietzsche: “tutto ciò che esiste è giusto e ingiusto, e in entrambi i casi ugualmente giustificato”. Qui si rivela lo spirito tragico di Eraclito, la cui superbia si oppone alla tracotanza dei falsi sapienti, che egli vorrebbe spegnere. È stata l’hybris di un novello Prometeo (come Platone chiama Pitagora nel Filebo) quella di voler donare all’uomo il numero per poter esaurire la serie intermedia che va dal finito all’infinito. Pitagora intese la geometria, la matematica, quindi la scienza, come historìa, come ricerca segreta ed esoterica (Giamblico, Vita pitagorica, 89). Attendendo alla ricerca (historìe) più di ogni altro, egli inventò “una sapienza (sophìe) tutta sua”, del tutto artificiosa e raccogliticcia (Diogene Laerzio, VIII, 6). Pitagora avrebbe messo insieme e selezionato molti scritti, facendo propri i discorsi sacri orfici e la forma sapienziale dei Sette Sapienti (Giamblico, La vita pitagorica, XVIII, 83). Perfino il famoso teorema a lui attribuito sarebbe stato ripreso da una formula babilonese di cui sarebbe venutoo a conoscenza durante uno dei suoi viaggi in Oriente. Eraclito viene dunque a spezzare la catena aurea dei sapienti, denunciandola come falsa. Egli è l’ultimo a entrare in scena in quella secolare gara fra i sapienti che attendeva ancora la singolare vendetta di Parmenide. Esiodo e Pitagora, Senofane ed Ecateo, rappresentano una catena di sapienti che dai tempi più remoti proclamavano la propria insuperabilità ed eccellenza: sapienti senza maestri, o maestri di se stessi, come il cantore Femio nell’Odissea. Di essi si sarebbe potuto dire ciò che Platone avrebbe rimproverato proprio ad Eraclito e agli eraclitei: “fra loro non ce n’è uno che sia discepolo di un altro, anzi crescono educandosi da sé, traendo ispirazione dovunque capiti: ognuno è convinto che l’altro non sappia nulla” (Teeteto, 180b-c).
Il superbo sapiente di Efeso ha riposto la sua opera nel tempio di Artemide, sorella gemella di Apollo. Tutta la sua sapienza si esprime all’ombra di Apollo, il dio che fra gli altri attributi ha anche quello di “Oscuro” (Plutarco, L’E di Delfi, 393d). “Oscuro” sarà chiamato non a caso anche Eraclito, per l’ambiguità e l’enigmaticità dei suoi detti, così simili ai responsi oracolari di Apollo. Eraclito allude inequivocabilmente al dio delfico che “non dice, non nasconde, ma allude”, e che si cela nell’armonia dell’“arco e della lira” (i due attributi di Apollo), ossia nello strumento di morte che può significare anche la vita (a seconda di dove cada l’accento: biòs, bìos); strumento che trae l’armonia dalla tensione delle corde e dall’opposizione delle parti ricurve. Ma Eraclito allude indubbiamente anche a Dioniso: il dio in nome del quale nelle falloforie si celebra il simbolo della vita, che però Eraclito identifica con Ade, dio della morte, a sottolineare ancora una volta l’identità degli opposti: vita e morte . Il mito vede Persefone perpetuamente divisa fra il dio Ade (che la rapisce nel regno sotterraneo della morte) e la madre Demetra (che la riporta periodicamente alla superficie della vita). Allo stesso modo, anche i misteri dionisiaci (che fanno ancora da sfondo al pensiero di Eraclito) alludono alla perpetua rinascita della vita e della natura.
La divinità, afferma Eraclito, è tutti gli opposti: guerra e pace, estate e inverno, vita e morte, come dire Dioniso e Ade. Ma si può anche pensare all’identità delle opposte divinità Apollo e Dioniso, i due dèi che si danno vicendevolmente il cambio nel seggio oracolare di Delfi secondo il ritmo delle stagioni, rispettando la diadochia delfica. Apollo e Dioniso sono nomi e figli diversi di uno stesso dio (Zeus) che “vuole e non vuole essere nominato” come tale, e che riceve – come le fragranze di un’unica essenza – il nome che ciascuno gli attribuisce. Nella sapienza di Eraclito il dio del distacco coincide con quello dell’immediatezza. Sapienza è sia distacco (Apollo) che immediatezza (Dioniso): il nesso profondo che unisce i due termini. Ma non stupisce che Dioniso si riveli il dio preferito di Eraclito, essendo in particolare il dio della coincidentia oppositorum (vita-morte, Dioniso-Ade), della metamorfosi, del divenire e dell’immediatezza. Ma anche Apollo colpisce con i suoi strumenti di morte e di armonia: l’arco e la lira. Apollo e Dioniso rappresentano la coincidenza degli opposti: del giorno e della notte, della pace e della guerra, ecc. Senza tensione e conflitto il mondo rovinerebbe. Ci troviamo di fronte al più perfetto contraltare del sereno mondo olimpico, ma anche agli antipodi dell’irenica armonia pitagorica.
La dialettica iniziatica di Parmenide
È scoccata l’ora più incandescente nella gara fra i sapienti. Ecco il superbo Eraclito, ed ecco il suo grande rivale: Parmenide. Ognuno dei due pretende di essere l’unico vero interprete del logos e del linguaggio divino. La Dea di Parmenide sembra più remota del dio profetico di Eraclito, del dio che colpisce da lontano con un solo cenno. Osservata in controluce, essa rivela il volto della Grande Madre mediterranea, la Signora dai molti nomi, la “Dea Bianca” di Graves. Il suo spettro continua ad aggirarsi in un Poema in esametri dedicato ancora “alla natura”, fugando le illusioni dei mortali e degli pseudo-sapienti. Eraclito e Parmenide rappresentano davvero le maschere di una battaglia tra la sapienza (gnome) del divenire “che tutto governa attraverso tutto” (fr. 41) e la Dea (Daimon) dell’Essere che pure “tutto governa” (fr. 12) . Nel suo modo di confutare Eraclito – insieme all’intera schiera dei “mortali” dalla “doppia testa” – Parmenide illumina la contraddittorietà della dottrina del proprio maggiore avversario, per il quale “essere e non essere sono considerati identici e non identici e di tutte le cose è reversibile il cammino” (fr. 6). Il divenire è un perpetuo rifluire dal nulla all’essere e viceversa, che in ultimo implica l’impossibile oscillazione dal nulla al nulla, da ciò che non era ancora a ciò che non è più. In questo modo, Parmenide – sulla scia di Senofane – porta alla luce il dogma condiviso da tutti i pensatori greci: dal nulla non può venire nulla. Per Parmenide niente ha inizio. L’essere è eterno, sempre attuale.
Del nulla non si può dir nulla, salvo che si tratta della via dell’errore, di una non-via. Lo stesso sapiente di Elea riteneva pertanto ineludibile una confutazione polemica (polyderis èlenchos, fr. 7) dell’opinione degli pseudo-sapienti e dei “mortali che nulla sanno” (fr. 6, 4), anticipando in tal modo lo stile zenoniano dell’argomentazione dialettica e della riduzione all’assurdo . Il fatto che Parmenide consideri necessario giudicare in modo logico la confutazione dei “mortali” – beninteso degli ionici e di Eraclito – mostra la potenza dell’arma dialettica come strumento eristico incontrovertibile. L’elenchos si rivela necessario al rilevamento della verità. Parmenide adotta la negazione in funzione polemico-dialettica, all’interno di una argomentazione ad hominem che dovrebbe risultare vincolante per l’avversario, ossia per chi nega l’immobilità e l’unicità dell’essere. Diversamente si dovrebbe dire che Parmenide ricade in un’evidente contraddizione pragmatica: mentre da un lato ritiene impossibile la negazione dell’essere, dall’altro assume di fatto la possibilità di quella negazione, sia pure in via ipotetica e per assurdo. Del non essere non si può parlare, dice Parmenide. Ma sia pure per negarlo, egli stesso è costretto a parlarne. Negare sistematicamente l’avversario (il mortale o lo pseudosapiente che parla del nulla) per dimostrare l’impossibilità di ogni negazione risulta il punto più problematico e controverso per il precursore del principio di non contraddizione! Che dire poi della definizione dei connotati dell’essere in modo necessariamente negativo: ingenerato, indistruttibile, immobile, ecc. (fr. 8)?
Il sapiente di Elea squaderna con metodo dialettico agli iniziati ogni possibile ipotesi: dalla seconda (dei “mortali” e degli ionici, Eraclito in primis) alla cosiddetta “terza via” (questa volta con allusione polemica ai Pitagorici) , affinché non debbano mai venire “vinti, superati o fuorviati” – il pregnante verbo parelàuno è pregnante – dalle “opinioni dei mortali” (fr. 8, 61). L’apparenza non deve prevalere sulla verità essendo quella della verità l’unica via della sapienza.
Il tratto agonistico in Parmenide rimane tesissimo, mentre quello più specificamente polemico appare velato da allusioni che lasciano trasparire la lotta metafisica contro la trama dell’apparenza da cui rimangono avvinti i mortali. Da questi ultimi non bisogna lasciarsi convincere (fr. 7, 1), né superare in modo sviante (fr. 8, 61), prestando unicamente ascolto alla forza persuasiva del logos e alla sua controprova elenctica e dialettica (fr. 7, 5), che è al tempo stesso una prova iniziatica (il sentiero della Notte che riconduce all’unica via del Giorno).
È proprio l’amore della chiarezza a condurre il sapiente nei luoghi oscuri dell’espressione divina. Solo un lungo sonno sciamanico all’interno di una caverna permise ad Epimenide di venire a contatto con le Dèe: Verità e Giustizia. Solo attraverso l’oscuramento della ragione il sapiente può divinare la verità, come accade anche all’Er platonico che non a caso ricorda la figura storica del profeta Zarathustra. Solo dopo aver distolto dalla via impercorribile della Notte, ed aver attraversato la “terza via” di un mondo apparente in cui la luce si mescola con le le tenebre (come nell’immagine pitagorica del cosmo), il sapiente-veggente (eidòs phos) può analogamente lasciare risplendere in tutto il suo fulgore l’unica via del Giorno.
Si badi: Parmenide – questo ‘anfibio’ logico-sapienziale, questo “fisiologo” dell’essere – è ancora troppo simile al tipo dello sciamano e del profeta, anche quando avanza in lui il malinteso prototipo “afisico” del logico o dell’ontologo, e il non ancora compreso inventore della dialettica. La sua ricognizione logico-dialettica (che i mortali sono invitati a ripercorrere o ad esplorare con la mente) è anche un cammino iniziatico che, pur ricalcando simbolicamente le orme del viaggio sciamanico, inaugura al tempo stesso la disciplina del logos, cogliendo il principio incontrovertibile della logica, e assicurando al nous la capacità di pareggiare la verità rivelata dalla Dea con la certezza raggiungibile dal sapiente e dall’iniziato. Ma la dialettica (ad hominem) del non-nulla non è una via puramente logica e astratta: essa si presenta quasi come una iniziazione logica, una via – malgrado tutto – negativa del logos, un itinerarium mentis che risale verso la Rivelazione dell’Essere. Riguardo alla spinosa e tanto discussa “terza via” accennata nella seconda parte del Poema, si tratta di una strada che sembrerebbe ammettere una manifestazione dell’Essere anche sul piano relativo dell’apparenza. Si ripropone in modo sconcertante anche per gli interpreti il dilemma delle due vie riferite, rispettivamente, all’essere e al non essere. L’alternativa sembra essere: o Parmenide da buon “naturalista” e non già da polemista – è l’ipotesi di Plutarco – vuole riabilitare e correggere la via dell’apparenza, fraintesa dai mortali, oppure la Dea indica l’estrema ipotesi assurda, per quanto non trascurabile, che deve essere superata dalla contemplazione della “ben rotonda Verità”. Dopo aver scartato con furia dialettica la via impossibile degli eraclitei, Parmenide prende attentamente in considerazione la via più raffinata di una non meglio identificata cosmologia (affine a quella pitagorica), che viene sottoposta al giudizio dell’iniziato. All’impercorribile via della notte assoluta si sostituisce per un momento un’ipotetica terza via che contempla una commistione di tenebre e luce, e che risponde ad una cosmologia d’ispirazione vagamente pitagorica. Ma così il dilemma delle due vie non si risolve, semmai si complica nella tanto tormentata questione della “terza via”, di cui Parmenide non parla mai esplicitamente, e che è stata postulata dagli interpreti. Di certo, il sapiente di Elea tiene ferma una visione univoca dell’essere: non esistono gli enti e i viventi, né esistono i mortali e le cose mortali se non come i riflessi cangianti e caleidoscopici dell’unica sfera immortale dell’Essere, concepito come Uno (hen) e Tutto (oùlon). Parmenide è un sapiente apollineo (Ouliàdes, seguace di Apollo guaritore, secondo l’iscrizione della famosa erma che lo ritrae); un sapiente logico-oracolare non dimentico di quel variegato e plurivoco mondo dell’immediatezza dionisiaca che nel fondo della sua molteplicità rimanda pur sempre all’Uno, nonché alla Dea dai molti nomi. Non per nulla, a torto o a ragione, la dottrina di Parmenide sarebbe stata ricordata con la formula stessa del panenteismo: Hen kai pan.
Il fiore della sapienza: Empedocle
Al pari dei primi pensatori della Grecia arcaica, anche i cosiddetti ‘fisici pluralisti’ del quinto secolo (Empedocle, Anassagora, Democrito) dovrebbero, a rigore, essere ricordati fra i sapienti (sophòi) naturalisti, conformemente all’uso linguistico del tempo. Essi riaprono – rendendola plausibile – quella problematica “terza via” della conoscenza relativa, al di là dell’essere e del divenire, cui pareva aver accennato Parmenide nella seconda parte del suo Poema. Nulla nasce dal nulla (come avevano affermato Parmenide e Melisso), ma al tempo stesso tutto si trasforma (come aveva detto Eraclito). Così, tutto rimane salvo dal nulla e tutti i fenomeni sono parimenti “salvati”, cioè spiegati, così come la scienza da sempre esige. Ciò che rimane eterno nell’impermanenza dei fenomeni sono gli “elementi”, che vengono chiamati ora “radici” (Empedocle), ora “semi” (Anassagora), ora “atomi” (Democrito). La terza via della conoscenza, conciliando le certezze paradossali della ragione con l’evidenza immediata dell’esperienza, passa ora anche attraverso la testimonianza dei sensi (per assimilazione, per dissimiglianza, per mezzo di effluvi atomici). Malgrado questa riabilitazione della conoscenza sensibile, la sapienza del quinto secolo rimane comunque collocata ad un livello più alto. Essa accenna già a quella conoscenza che sarà chiamata ‘intelligibile’ dalla nuova sintesi platonica. In Empedocle questa scoperta dell’intelligibile passa attraverso un’esperienza di tipo iniziatico e sciamanico, che si muove nel solco della tradizione orfico-pitagorica.
Tale sapienza contempla l’eterno dramma cosmico che non cessa di oscillare fra Amore e Odio, fra questi due poli metafisici che costituiscono la versione empedoclea dell’unità ‘apollinea’ e della dissoluzione ‘dionisiaca’. È Plutarco ad averci rivelato il significato esoterico e sapienziale di questi due archetipi divini: Apollo è il nome divino del Fuoco, Dioniso quello degli altri elementi che derivano da esso. I “sapienti” alludono rispettivamente all’Uno (A-pollon = a-pollòi = non-molti = Uno), e alla dissoluzione nella pluralità (L’E di Delfi, 9; Iside e Osiride, 75). Ciò vale anche per Eraclito come per Empedocle, che rispettivamente del Fuoco e del Fuoco Celeste avevano fatto il simbolo della sapienza e dell’Origine.
Il giovane Colli vide in Empedocle uno spirito dionisiaco che univa alla sua visione mistica dell’universo una certa apollineità politica (Apollo è un dio fondatore di civiltà) .
Per Empedocle i pensieri sono frecce di Apollo, sennonché come già in Parmenide, l’armonia raggiunta dalla pienezza divina dello Sfero non rimane puramente apollinea, richiamando anche la dea dell’Amore – Afrodite – e quindi anche il remoto sostrato mediterraneo e preellenico che le fa da sfondo. Afrodite appare come la divinità tessitrice dell’armonia corporea, nonché come Colei che dona all’uomo il delicato lume della vista, così sensibile alle meraviglie del mondo da lei stessa dipinte. In tal modo Empedocle (almeno in ciò erede di Parmenide) risolve con la sua visione metafisica quell’urto avvenuto nella storia dello spirito greco fra vecchie e nuove divinità che si era riflesso nella tragedia attica a lui contemporanea. Da un lato gli dèi si trasferiscono nella natura, si ‘fisicizzano’ nei suoi ‘elementi’ (metaforizzati nelle quattro “radici” e allegorizzati con i nomi di Zeus, Era, Nesti, Aidoneo ); dall’altro l’ombra della tragedia, col suo dissidio di fondo tra spirito apollineo e impulso dionisiaco, rifluisce nel pensiero di Empedocle, che metafisicizza questi due “demoni” della sua stessa anima, divisa – come si evince dai suoi stessi versi – fra una superba e caustica affermazione di superiorità sapienziale e uno spirito di concordia e di ricomposizione cosmica. Empedocle, insomma, tende a ‘fisicizzare’ i pur divini spiriti elementari, e al tempo stesso metafisicizza le forze psichiche di Amore e Odio, che segnano anche la sorte dell’uomo, poiché stando ad una importante testimonianza di Plutarco, esse rappresentano i due Dèmoni che si dividono la nostra anima appunto per ciò demonica, ed esiliata, come un demone, dalla beata condizione divina.
Il sapiente agrigentino, come ha scritto Nietzsche, era “in tutto e per tutto un uomo agonale”. In effetti, egli si muove tra i suoi versi come un lottatore e perfino come un dio che si autoincensa: come uno che lotta per l’affermazione della sapienza divina, gareggiando in primis con Parmenide e con Senofane (che si erano già espressi in esametri), ma anche con Anassimandro e i Milesi. Contro Parmenide (di cui pure era un fervido emulatore) fece valere un nuovo cosmo plausibile, una rivelazione che rivalutava la realtà plurale e mutevole dei fenomeni. I Poemi empedoclei rappresentano un controcanto rispetto al Poema di Parmenide. Mentre Parmenide aveva dichiarato che solo il leggero etere si poteva nominare tra le cose esistenti, Empedocle ammetteva la legittimità dei trattare degli elementi corporei. E se il sapiente eleate aveva messo in guardia contro l’ordine ingannevole (kosmos apatelòs) dei versi che evocavano l’atmosfera orfico-pitagorica della cosmologia esposta nella seconda parte del suo poema, il sapiente siciliano lo corregge con la seguente parafrasi: “ascolta l’andamento non ingannevole del mio discorso” , invitando ad ascoltare la parola del dio (Apollo), come Parmenide aveva chiesto di fare con la sua misteriosa Dea.
Empedocle difende il mondo sensibile al pari di quello nascosto testimoniato dalle cosmogonie orfiche. Contro Senofane osserva che le profondità della terra e dell’etere non possono essere infinite. Ad Anassimandro obietta implicitamente che un solo principio non vale a spiegare il cosmodramma eterno, e pone in luogo dell’Infinito lo Sfero, che appare invece (pitagoricamente, ma anche eleaticamente) come finito e perfetto.
In luogo del caos originario di Anassagora, il sapiente di Agrigento pone lo stadio perfetto dello Sfero. L’ordine del cosmo non è opera di un nous divino (né dell’incontro automatico degli atomi che vorticano nel vuoto), ma di due forze cosmiche in contesa perenne fra loro. Un influsso iranico sul dualismo empedocleo è stato fortemente sospettato (Bidez, Burkert), anche in considerazione dello scritto perduto di Empedocle Passaggio di Serse, ma la questione dei possibili influssi orientali (West) rimane, almeno allo stato attuale, irrisolta. Quello che si può constatare con qualche grado di certezza è che Empedocle si muove nel solco del pitagorismo, né può sfuggire una certa consonanza con Filolao, un pitagorico della seconda metà del quinto secolo, noto per aver risolto la questione cosmologica in base ai due principi pitagorici del limite e dell’illimite (termini, questi ultimi, usati tuttavia al plurale). Tale dualismo pitagorico viene trasfigurato da Empedocle in un modo che può effettivamente ricordare lo zoroastrismo, per quanto il parallelo non si possa spingere fino alla sinonimia fra Amore e Bene da un lato, e fra Odio e Male dall’altro. Com’è noto, Empedocle ritiene che il mondo ristabilisca ciclicamente il suo ordine in un equilibrio sempre instabile fra e Amore e Odio, Amicizia e Inimicizia (Philìa e Nèikos): Si riconferma così non solo la doppiezza dei principi (24, 3 DK), ma anche l’armonia dei contrari di matrice pitagorica, per quanto, a suo dire, il paradigma dell’armonia risieda soprattutto nella divina solitudine dello Sfero. La questione del modello cosmologico (mondo unico o mondi infiniti) potrebbe rivelarsi uno pseudoproblema se si considera che il cosmo è sempre uguale e sempre diverso, il campo virtuale di azione dei due ‘poli’ metafisici (Sfero e ‘Antisfero’) che periodicamente lo richiamano all’ordine, ma che in nessun momento potrebbe non essere. Almeno su questo punto i frammenti empedoclei rimangono inequivocabili: nulla viene dal nulla, niente nasce dal niente. L’instabilità dell’omogeneo (con la quale Empedocle sembra addirittura precorrere Spencer e Prigogine), perturbando la stasi estrema dello Sfero, consente il gioco cosmico del rovescio, grazie all’azione turbinosa di un Vortice che nasce dall’insinuante tensione dell’Odio. Si tratta, a ben pensare, di una tensione che rivela una duplice ispirazione: pitagorica, in quanto principio di armonia; ed eraclitea, in quanto ragione di una più profonda unità tragica. Odio e amore rapresentano, insomma, un’armonia di contrari che si approfondisce nell’unità eraclitea della tensione.
Tragica è poi la doppiezza di tutte le cose. Duplice è la nascita e duplice la morte degli enti, dei viventi e dei mondi: nell’enunciazione di tale enigma si può cogliere tutta l’ambiguità del mondo così come lo vede Empedocle. Il paradosso di un mondo creato dall’Odio e distrutto dall’Amore, non è sfuggito all’Empedocle immaginato da Schwob: “Poiché il mondo che noi conosciamo è opera dell’odio, la sua dissoluzione sarà opera dell’amore” . E neanche il verbo di Empedocle si sottrae a questa essenziale ambiguità che lo vede pertanto impegnato in una difficile lotta contro la naturale diffidenza umana. Duplice sarà dunque anche l’andamento della parola sapienziale: “ripercorrerò le vie dei canti”, “duplice cosa dirò”. E se doppio è il discorso del sapiente è perché doppia come il diaulos è la corsa di andata e ritorno di tutte le cose, come pure la dialettica che va dall’Uno ai molti e dai molti all’Uno. “Uomini dalla doppia testa”, aveva definito Parmenide coloro che pensano che “di tutte le cose è reversibile il cammino”. Ma proprio questo ora riafferma polemicamente Empedocle, con rinnovato spirito eracliteo: non solo il sentiero non è unico, ma i “sentieri” possono scambiarsi, permutando le combinazioni naturali e il corso della vita stessa (21; 35; 115). Duplice, egli sostiene, è anche l’anima che ci è toccata in sorte: l’uomo, straniero nella landa inospitale di Ate, “esiliato ed errante” in questo “antro oscuro”, in questa sventurata valle di lacrime e di lotte, in questo luogo infelice e malsano che egli non ha voluto, ha un destino doppio: uno terrestre e uno celeste. Decaduto dal proprio “rango” celeste (119), nella sua breve ‘vita-non vita’ (che forse riecheggia nei versi 141-142; 242-243 dell’Alcesti, come pure nei frammenti 639 e 833 di Euripide), l’uomo si trova gettato in un mondo che non vede se non alla luce del “caso” e del suo debole lume, che scambia illusoriamente per il tutto, prima che la sua stessa esistenza dilegui rapidamente in fumo. Egli è dunque un essere effimero, ma la sua patria celeste è eterna. La duplice anima che accompagna la sua sorte è descritta da tutta una serie di coppie archetipiche: la Terrena e la Solare, la Discorde e l’Armoniosa, la Bella e la Brutta, la Rapida e la Tarda, la Vera e l’Oscura, la Generante e la Distruttiva, la Dormiente e la Risvegliante, la Mobile e l’Immobile, la Magnifica e la Sordida, la Muta e la Profetante. L’anima umana è sedotta e contesa da questa doppia schiera di opposte potenze demoniche, che stando a Porfirio sono le “ninfe” che alimentano le “linfe della mente”. L’anima è quindi come un microcosmo in cui si riflette il dramma cosmico che registra l’alternanza di questi contrastanti caratteri, e soprattutto dei due princìpi contendenti (Amore e Odio) destinati ad eclissarsi vicendevolmente, pur rimanendo coeterni. Tutto è doppio e tutto si rovescia, presto o tardi, nel proprio contrario, in una ruota eterna, in un moto enantiodromico e senza fine. Tutte le cose, come i mondi, si originano e si dissolvono per la vicendevole azione di Amore e di Odio. Non a caso il mondo ci potrà apparire, di volta in volta, come un luogo buio e inameno, oppure variopinto e meraviglioso in tutte le sue forme, per non parlare dei due emisferi di luce e tenebre che cingono la terra. La vita stessa si spartisce fra gioia e dolore. Alla luce di questa lucida consapevolezza della doppiezza di tutte le cose si comprende come dalla retorica di Empedocle abbia potuto discendere quella gorgiana dei discorsi doppi, forse già in parte influenzata da Eschilo.
Contemporaneo di Sofocle e di Euripide, Empedocle è un pensatore tragico della tempra e quasi dell’altezza di un Anassimandro e di un Eraclito. Fu forse egli stesso autore di tragedie, e quasi certamente ne fu lettore o anche spettatore (poteva non esistere un teatro nella Akragas tanto decantata da Pindaro? e potrebbe oggi venire alla luce nella città del più sfrenato scempio edilizio?). Col suo piglio tragico sembrava voler competere con Anassimandro, ma il suo stile altisonante e perentorio entrava in competizione soprattutto con quello di Parmenide. Il sapiente agrigentino conobbe forse alcune tragedie di Eschilo e scrisse un proemio ad Apollo dallo stile vagamente omerico ma dall’intonazione marcatamente orfica. Il suo Carme lustrale venne recitato niente meno che nel teatro di Olimpia. Ma soprattutto la sua visione della vita era tragica e non per caso Ippolito farà di lui un lontano maestro dello gnostico Marcione. L’elemento tragico del suo pensiero consiste nel credere che il ciclo cosmico è un perpetuo campo di battaglia tra forze opposte: Amore e Odio. La tensione tra queste due forze è perenne, ma in modo tale che la vita può venire casualmente anche dalla dissoluzione operata da Odio, mentre la morte può provenire perfino dall’Amore, quando nello Sfero il tutt’uno non consente più nemmeno il respiro della vita. Empedocle credette, come un giorno crederanno anche Giordano Bruno e Hölderlin, di vivere in un tempo apocalittico, giunto “all’abisso del Vortice”, come rivela il papiro di Strasburgo casualmente sottratto all’oblio . E come Bruno (che rivelerà la sua dottrina con i nomi divini di Anfitride e Diana) ebbe fede nell’hen kai pan, nell’Uno-Tutto.
In Empedocle le figure del poeta-profeta, del mago-sciamano-taumaturgo, del medico e “fisiologo”, del pensatore tragico e mistico, del saggio uomo politico di sentimenti democratici si fondono in un’unica complessa personalità. Ma il pensatore agrigentino si crede soprattutto un veggente. Potendo contare sulla sua personale esperienza iniziatica, egli si presenta come un maestro di sapienza agli iniziati, ma anche alle folle, che difatti lo seguono in visibilio. Egli sa di sapere, e non esita a dichiarare quindi la sua sapienza attraverso il verbo privilegiato dallo stesso Parmenide: “vedo, so” (oida). Egli si rivolge in particolare al suo amico-discepolo prediletto Pausania, invitandolo a seguirlo sulle “vette della sapienza” (3; 4), a “fissare con la mente” le forme realizzate dalla Dea dell’Amore, ad alimentare la stessa mente con la conoscenza dei principi che dominano l’universo (17), a divinare la sorte mortale insieme ai mutamenti cosmici, a scorgere da “sapiente” l’esistenza di un destino oltre la morte (15), a cogliere la verità con l’intùito (2; 23), insomma a prestare ascolto al verbo divino e alla riprova dei discorsi iniziatici (17; 21 ecc.; Pap. Strasb.). Ciò che aveva già visto il suo maestro Pitagora con le doti profetiche di Apollo è quanto ora egli stesso vede e sa, quanto potrà essere esteso, pur fra mille difficoltà, alla persuasione degli amici (129; 114). La sua sapienza non potrà non conquistare chi possiede già un’intima vocazione verso di essa (4; 110).
Empedocle ripercorre le sue multiformi vite anteriori fino a risalire alla causa della “caduta” dai Beati (115; 123), che vedeva la sua anima dibattersi fra gli elementi della natura. D’ora in avanti egli mostrerà al mondo il proprio volto di profeta e poeta, medico e capo, e non avrà timore di accettare “le ghirlande della gloria”, né di offrire a sua volta il fiore dell’eccellenza da cui “germogliano gli dèi” (146). E se può farlo è perché ha visto la via delle “purificazioni”, essendosi sollevato all’altezza della Sapienza apollineo-pitagorica che saetta con veloci pensieri. Quale fosse la via ascetica da lui indicata al mondo, ce lo rivela ancora una volta Plutarco: il “digiuno” dalla colpa, l’astensione dal male. E il male, a sua volta, in cosa consiste? Nel tradire la Verità, nel macchiarsi del sangue dei propri simili, nell’abbandonarsi all’Odio. Astenersi dalla menzogna, dai sacrifici cruenti, dalla violenza e dall’Odio è dunque la via regia per uscire da questa landa desolata e tenebrosa e per spogliarsi dalla tunica terrestre (che è il nostro stesso corpo, la nostra non vista tomba orfica, il nostro Ade). Il cammino delle “purificazioni” è però talmente impervio che una sola vita non basta quasi mai a raggiungere la meta celeste, il “culmine della felicità”, il ricongiungimento con la pienezza dello Sfero celeste, che rimane la nostra destinazione. Ecco perché Empedocle, ancora sulla scia di Orfeo e di Pitagora, prevede una serie di trasmigrazioni dell’anima, rivelando la sua fede nella metempsicosi.
Secondo Jaeger la visione pessimistica di Empedocle descrive una sorta di “viaggio all’inferno” (Kingsley dirà qualcosa di analogo anche riguardo al viaggio sciamanico di Parmenide). Analogamente, Dodds sostiene che con Empedocle ci troviamo di fronte all’ultimo dei grandi sciamani greci. Prendendo per buona l’idea del viaggio iniziatico e della ruota delle rinascite (che l’orfismo condivideva con l’induismo), si comprende anche l’immagine pregnostica dell’errare in una terra straniera che è allegorizzata una volta col nome di Ade (come si ricava da alcune antiche testimonianze) e un’altra con quello di Ate, quasi a voler associare il transito terrestre ad un soggiorno infernale. Empedocle ha parlato di un ciclo cosmico che oscilla fra Amore e Odio. Ma in fondo è all’Amore che egli mirava, sicché Afrodite resta – dall’inizio alla fine – la sua vera Musa e Dea.
© Luigi Capitano, I bambini di Eraclito
SCHEDE DI FILOSOFIA per le classi quinte liceali
Il problema della "cosa in sé" presso i postkantiani
La problematicità della «cosa in sé» dipendeva dal fatto di rimanere un termine di riferimento non pensato né pensabile, «inconoscibile», «irrappresentabile», anche contro il principio di rappresentazione fatto valere da Reinhold. Appuntando la sua critica alla prima edizione della Critica della ragion pura (1781), Schulze aveva buon gioco nel mostrare l’inconseguenza di considerare la «cosa in sé» come la «causa reale» del fenomeno e al contempo come «inconoscibile». Maimon avrebbe approfondito la critica, considerando la cosa in sé kantiana come una «non-cosa» (Unding), paragonabile all’irrealtà di un numero immaginario. Egli riteneva che la «cosa in sé» potesse essere piuttosto concepita alla stregua delle grandezze irrazionali, come il grado minimale e liminare della coscienza). Si trattava di un ingegnoso tentativo di rendere la «cosa in sé» immanente alla coscienza. Il passo decisivo lo compirà Beck nel 1796, eliminando risolutamente la «cosa in sé» e considerando l’oggetto come un prodotto della rappresentazione. Fichte (che aveva intanto preso il posto di Reinhold all’università di Jena), aveva già tagliato il nodo gordiano, inaugurando ben più radicalmente l’idealismo con la sua Dottrina delle scienza (1794). Gran parte delle critiche dei cosiddetti postkantiani riposano sulla doppia riduzione: fenomeno ==> rappresentazione ==> coscienza. L’ambiguità della prima edizione della Critica della ragion pura (che ancora confondeva linguisticamente il fenomeno con la rappresentazione e la «cosa in sé» con l’«oggetto della rappresentazione») prestava il fianco a quel fraintendimento creativo che in ultima analisi avrebbe consentito il passaggio all’idealismo. Nella seconda edizione (1787), Kant preciserà che per «oggetto della rappresentazione» si intende il fenomeno, mentre il noumeno rimane solo un concetto-limite.
MAX STIRNER: UNA PAGINA SPARTIACQUE
Con Stirner l’io diventava il punto di non ritorno di una «nuova storia» postcristiana finalmente non più all’insegna del «sacrificio», dello «struggimento» e del «rinnegamento di sé»: «L’uomo, fine ed esito del cristianesimo, è, in quanto io, l’inizio e il materiale da usare per la nuova storia…» . Lo stesso Stirner si presentava come quello spartiacque epocale di cui la pagina centrale del suo capolavoro – L’unico e la sua proprietà – rimane il documento più emblematico. Si tratta della famosa pagina che divide le due sezioni del libro: l’«UOMO» e l’«IO».
"All’inizio dell’età moderna sta l’«uomo-dio». Alla sua fine scomparirà soltanto una parte dell’uomo-dio, cioè il dio? Ma può veramente morire l’uomo-dio se in lui muore soltanto il dio? Non si è riflettuto su questo problema, poiché si pensava di aver già fatto tutto portando vittoriosamente a compimento, ai giorni nostri, l’opera dell’illuminismo, il superamento di Dio; non si è notato che l’uomo ha ucciso Dio soltanto per diventare lui stesso – «unico Dio nei cieli». L’aldilà fuori di noi è stato certo spazzato via e la grande impresa degli illuministi è compiuta; ma l’aldilà dentro di noi è diventato un nuovo cielo che invita a nuove scalate celesti: il Dio ha dovuto far posto non a noi – ma all’uomo. Come potete credere che l’uomo-dio sia morto, se prima, in lui, non è morto, oltre al dio, anche l’uomo?"
Questa pagina separa l’io, per la prima volta considerato nella propria singolarità ed unicità (Stirner), dall’Uomo divinizzato nella propria essenza astratta (Feuerbach). Ma essa segna al tempo stesso il passaggio da un nichilismo negativo (rappresentato dal «cristianesimo» e dal «vassallaggio» dello spirito) ad una sorta di nichilismo positivo capace di sbloccare le potenzialità creative dello «spirito libero». Ma siamo soprattutto di fronte allo smascheramento nichilistico di ogni aldilà, alla disalienazione da ogni forma di trascendenza divina, non importa se situata fuori o dentro l’uomo.
Per Stirner, che pure rappresenta il discrimine più irriducibile del nichilismo europeo, l’alternativa decisiva si riduce alla seguente: possedere se stessi oppure essere posseduti dalle «fissazioni» ideali, dalle leggi umane o divine. Non vi sono vie di mezzo fra l’essere Unico o «straccione» , padrone di sé o posseduto . In ambo i casi non si sfugge infatti alla potenza della negazione, poiché chi possiede se stesso non è posseduto dai «fantasmi» (anzi, appunto, li nega), e chi invece è posseduto dalle grandi astrazioni finisce col rinnegare se stesso, non riuscendo a prendere coscienza del proprio egoismo «involontario» e «inconfessato».
Com’è noto, la pars destruens del capolavoro di Stirner ruota intorno all’infuocata polemica antifeuerbachiana. Feuerbach viene accusato di aver fatto ricomparire nel cuore dell’uomo quell’ingombrante trascendenza divina che era stata fatta sloggiare dalla sua «dimora celeste» . Per questa via, l’essenza dell’Uomo avrebbe preso il posto di Dio. Non per caso Stirner definisce la filosofia di Feuerbach un «cristianesimo riscoperto» . Carl Schmitt osserverà, con dotto puntiglio filologico, che la formula homo homini Deus, risalente a Plinio, e «citata in seguito da Bacone e da Hobbes e infine usata anche da L. Feuerbach (…) sarà poi liquidata, verso al metà del secolo XIX, da un contemporaneo di Carl Marx: Max Stirner». Con Feuerbach, Dio veniva dichiarato morto solo a metà: fin quando non si comprenderà che il divino deve sparire anche dall’Uomo, non ci si sarà mai veramente liberati dal «fantasma» di Dio, che rimane la metafora di tutti gli altri «spettri» e «idee fisse» della metafisica, dell’etica, del diritto e della politica. Stirner rimprovera Feuerbach di essere ricaduto, con le sue «insurrezioni teologiche», in una nuova forma camuffata di teismo della quale occorre sbarazzarsi definitivamente, per poter raccogliere l’invito a «nuove scalate celesti». L’opera dell’illuminismo dovrebbe infatti compiersi con l’ultimo assalto al cielo delle astrazioni umanitarie.
«Ogni essere superiore a me stesso, sia Dio o l’uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e impallidisce appena splende il sole di questa mia consapevolezza» . A parte i toni iperbolici, enfatici ed esaltati con cui si presenta, tale superbia o «tracotanza» irreligiosa» non è affatto immotivata, dato che si contrappone in modo simmetrico all’«arroganza religiosa» , anticipando così la «guerra» dichiarata da Nietzsche all’«istinto teologico dell’arroganza» . Non poche pagine di Nietzsche riceverebbero una nuova luce se rilette a partire da questa distinzione stirneriana fra la «tracotanza» dello spirito libero e l’«arroganza» degli idealisti, dei teologi, dei preti, dei filosofi che pretendono di possedere un «punto di vista celeste» e assoluto sulla verità .
Stirner ritorce la critica già rivolta da Feuerbach ad Hegel contro lo stesso Feuerbach. Stirner accusa Feuerbach di rappresentare l’«ultimo rifugio della teologia», ossia di riprodurre nello schema del proprio umanismo una nuova inversione dei rapporti di predicazione fra il divino e l’umano , dopo aver rimproverato Hegel per lo stesso motivo. La rivolta di Stirner contro ogni essenza estraniante, contro l’«essenza» in quanto tale, avrebbe avuto un immenso effetto a distanza, destinata com’era a distruggere tutti gli assoluti della metafisica. Senza volere, Stirner rendeva conto della portata nichilistica di quell’ateismo feuerbachiano che pure si trattava per lui di radicalizzare spingendo verso le sue possibilità più estreme. Nella prospettiva di questa nuova ondata dissolutrice si comprende l’opzione stirneriana a favore di un radicale nominalismo: le essenze sono «nomi», «fantasmi», non già cose. L’«essere supremo», o il «Padrone supremo», è migrato come un’ombra da Dio , allo Stato, alla Società, all’Umanità. Dopo la conclamata «morte di Dio», continuare a vincere la sua «ombra» ovunque si fosse ancora rifugiata rimaneva la «nuova battaglia», l’ultima sfida, l’estrema hybris .
A Nietzsche (che si voleva il «Nichilista» per eccellenza, dal polacco «Niecki» ) non sarebbe rimasto che ripetere – come in una parodia della parodia – quella stessa impresa con la sua furia iconoclasta e la sua «filosofia del martello». Nietzsche nasce sotto le stelle della «morte di Dio» l’anno stesso della comparsa dell’Unico, ma il significato nichilistico di tale evento epocale si trova già tutto implicito in Stirner: se Dio è morto né la verità né il bene, né alcun altro ideale della metafisica potrà più avere una valenza assoluta. Il cosiddetto «mondo vero» o «ideale» non esiste: esso è solo un «fantasma» , una menzogna. Per dirla cristianamente: «nulla e vanità» ; detto altrimenti: «un’illusione prospettica» . Non si avrebbe dunque più alcun motivo per andare alla ricerca di un aldilà, o fondamento, o essenza, o in sé delle cose, come ribadirà Nietzsche , descrivendo la «genesi del nichilista» radicale . Laddove il mondo è divenuto uno «spettro» e una «favola», non v’è da stupirsi che il singolo assurga a metro di tutte le cose: «qui si afferma che la misura di tutto non è l’uomo, ma che io sono tale misura» . Sennonché anche questa nuova versione dell’homo mensura («il porre se stesso come senso e misura delle cose») potrà apparire a Nietzsche come un ulteriore esempio di «iperbolica ingenuità» .
Anziché dissolvere il fantasma dell’io, Stirner lo divinizza, come del resto farà anche il profeta del «superuomo». E qui cade più che mai a proposito la tagliente sentenza di Spengler: «il passare da un presunto cristianesimo a un presunto ateismo o viceversa, è un cambiar parole e concetti, è modificazione della semplice superficie religiosa o intellettuale e niente più» . In effetti, Stirner non accenna minimamente a portare a fondo l’attacco a quell’elemento divino che sopravvive nel singolo. L’ultimo «assalto al cielo» si arresta, per così dire, alle soglie dell’Unico. Se Hegel aveva ritardato, con la sua divinizzazione dell’esistenza, l’apparizione dell’ateismo , neanche Stirner riesce ad impedire che il «cielo» finisca col ricadere interamente nell’orbita divina dell’Io. La furia devastatrice della negazione si ferma alle soglie dell’io e della sua «potenza», ma è pur vero che Stirner depotenzia da subito proprio questo preteso fondamento, affermando di aver riposto (come in una canzone conviviale di Goethe) la sua causa «su nulla» (auf Nichts). Questo «nulla creatore», insieme «creatore» e «creatura» di se stesso, rimane tuttavia quasi una parodia del divino, e Stirner non ha remore nell’utilizzare un linguaggio che appare chiaramente improntato alla mistica tedesca di Eckhart e Cusano : «al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro» ; «io non sono nulla nel senso della vuotezza, bensì il nulla creatore, il nulla dal quale io stesso, in quanto creatore, creo tutto» . E ancora: «io sono (…) il tutto in tutto (…) io sono tutto e niente» . Bisogna arrendersi all’evidenza che questo «nulla creatore», su cui tanto è stato scritto, non è un concetto puramente mistico, e nemmeno la semplice negazione di ogni astrazione oggettivante. È lo stesso Stirner a riconoscerlo: «per quanto ciò possa sembrare mistico, pure lo viviamo come una esperienza quotidiana» . L’irriducibilità di tale io nihilistico sospinge la stranezza del suo carattere ai limiti del linguaggio apofatico. Proprio su quest’ultimo si fonda la spesso ribadita ineffabilità dell’Unico e quel residuo di teologia negativa che, malgrado tutto, sopravvive nel suo segno. Stirner ha raggiunto nell’indeterminatezza dell’io il suo inattaccabile «punto zero». La mossa più audace di Stirner consiste appunto nell’aver fatto discendere l’Io dalle altezze fumose del «regno celeste» del pensiero per rifletterlo nello specchio di un «io caduco» ed «effimero» che crea e dissolve se stesso. In tal modo il pensiero raggiunge magicamente il suo «punto zero». Si tratta, come si vede, dell’unico perno intorno a cui può ruotare tutto il resto, l’unico punto archimedèo sul quale ancora poter far leva per mettere in movimento ogni altra negazione. In questo modo l’Unico è riuscito a fugare ogni fantasma, salvo «lo spettro di tutti gli spettri» (Szeliga).
Nume segreto di Nietzsche e spettro dell’Ideologia tedesca, Stirner è il pensatore che ha dischiuso una pagina veramente inedita nel pensiero occidentale: la pagina più scomoda e scandalosa che rimane al tempo stesso la cifra più irriducibile e contagiosa di tutta la nostra epoca. Giustamente Calasso ha potuto affermare che il nostro mondo, senza saperlo, discende non meno da Stirner che dagli altri «maestri del sospetto» . Da parte nostra riteniamo di poter aggiungere il nome di Giacomo Leopardi, figura spesso ancora ingiustamente ignorata dalle storie e dalle genealogie del nichilismo. A nostro avviso Stirner sta alla seconda fase del filosofare nietzscheano – contrassegnata dall’irruzione del Freigeist – come Schopenhauer sta alla prima, mentre il demone di Leopardi comincia chiaramente a infiltrarsi all’epoca dell’Inattuale sulla storia con il suo sguardo sovrastorico e disincantato (già tendenzialmete antivitale) per cedere definitivamente il passo all’immagine eccessiva del nichilista romantico, decadente e passivo. L’ultimo Nietzsche appare invece dominato da una vana fuga dal ‘demone’ stirneriano e da un nuovo pathos mitico che si manifesta attraverso una mitizzazione delle ultime tre cifre del suo filosofare: il superuomo , l’eterno ritorno e la volontà di potenza. Si comprende in tal modo come Stirner abbia potuto svolgere un ruolo di nume-spartiacque anche all’interno della stessa opera nietzscheana, preludendo alla «filosofia del mattino». Stirner potrebbe pertanto essere il «leone» di cui allude Zarathustra; lo spirito libero che, dissolvendo gli ultimi «fantasmi» della filosofia, crea lo spazio per una dimensione nuova dei valori, tutta incentrata sull’«io voglio» .
La volontà del bambino e l’«io sono» di cui parla Stirner anticipano in modo sorprendente il «superuomo» nietzscheano, ovvero il «fanciullo» delle famose «tre metamorfosi dello spirito» di Zarathustra. Solo allorquando si sarà affrancato dal peso della tradizione teologica e morale, e perfino dal cosiddetto «libero pensiero» , lo «spirito libero» non si sarà lasciato più assediare dal proprio «mondo interiore», dall’esercito dei concetti e delle «idee fisse»; solo allora esso potrà dirsi veramente arbitro di sé, libero di autodeterminarsi, di trovare in se stesso la fonte della propria libertà, del proprio valore, in una parola di se stesso.
Parlando di una «verità sotto di sé», ossia della sola verità di cui possa essere l’unico arbitro, Stirner prefigura, ancora in anticipo su Nietzsche, una nozione di verità come maschera della volontà di potenza: «vero è ciò che è mio, non vero ciò a cui appartengo». «Vero» è dunque tutto ciò che rimane in mio potere. Stirner afferma che «tutto ciò che è “autenticamente” umano è mio». Ma tutto ciò che posso far mio grazie alla «potenza» che mi è più propria, la mia «proprietà», non è da non confondere con la categoria dell’avere. Viceversa, resta «non vero» per Stirner tutto ciò che esercita una potenza su di me, o anche tutto ciò su cui io stesso non riesco a esercitare potenza alcuna. Dunque, sono io che, volendo in primo luogo essere me stesso, fondo su di me («questo nulla», questa negazione di ogni astrazione estraniante) tutti i miei valori e ogni valore in quanto tale. Come Artaud pretenderà un giorno di estrarre da se stesso la pietra filosofale, così Stirner dichiara: «Io, questo nulla, estrarrò da me le mie creazioni» .
Stirner proclama ovunque il privilegio dell’io sovrano, la sua supremazia pratico-esistenziale. Ma proprio qui si annida l’insidia di un postulato che rimane il residuo latente della metafisica tradizionale, ossia del «pensare per valori» (Heidegger): per l’immoralista Stirner l’io rimane il valore di tutti i valori. Dopo aver liquidato come «santi» tutti gli ideali del «regno dei fantasmi», Stirner ha finito col glorificare, santificare, perfino divinizzare l’io, pur depotenziando la sua apparente onnipotenza. In tal modo, l’io di Stirner resta illeso rispetto a tutte le ferite al narcisismo antropocentrico che la scienza moderna aveva inflitto all’uomo. Stirner non arriva a dubitare dell’io (di questo nome privo di significato). (…)
Stirner ha inteso sovvertire la morale del dovere e della vocazione, secondo la quale «io voglio ciò che devo». E tuttavia, in lui la volontà di autodeterminazione, ovvero di essere libero nel senso più autentico della parola, funziona di fatto come una sorta di imperativo. Anzi, tale rimane la massima implicita che guida tutto il suo filosofare. In questo paradossale imperativo si può intravedere l’influenza esercitata da Stirner su Bakunin e, di riflesso, sul personaggio letterario Kirìllov: «se Dio c’è – argomenta quest’ultimo – tutta la volontà è sua, e io non posso sottrarmi alla sua volontà. Se non c’è, tutta la volontà è mia, e sono costretto ad affermare il libero arbitrio». (…). Stirner si rivela così il demone segreto del sottosuolo letterario russo, ma anche il mito rimosso e il genio underground del nichilismo europeo. Sappiamo che l’Unico e la sua proprietà, questo pericoloso vangelo per spiriti liberi, non mancava nella biblioteca di Dostoevskij, così come non poteva mancare in quella degli anarchici russi, a cominciare da Bakunin, che del nichilismo si considerava il «fondatore» .
© Luigi Capitano, da: "Leopardi e la genealogia del nichilismo" (ora confluito in Leopardi. L'alba del nichilismo, Orthotes).
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